martedì 6 novembre 2012

Meglio pochi...

...ma buoni. Lo dice la saggezza popolare. E quella non sbaglia mica.
Beh mica tanto, dipende sempre dai casi. Per esempio alla mia band (come a tante altre a questo mondo) capito' di esibirsi in un pub dove il gestore pretendeva di pagarci in rapporto a quanti avventori riuscissimo a procurargli. E allora vagli a spiegare che "meglio pochi ma buoni". Per non parlare poi del fatto che, a fine serata, ci pago' l'equivalente di una miseria.
Ma questo, purtroppo, e' un atteggiamento fin troppo diffuso nell'ambiente musicale. Sembra quasi che la svalutazione di quella che, a conti fatti, e' pura e semplice manodopera sia ormai entrata nella pratica comune. 
E' un argomento che ho gia' affrontato in passato, altrove, ma che mi preme richiamare brevemente perche' ho come l'impressione che si stia estendendo ad altri ambiti.
Iniziamo stabilendo che ci sono una o piu' persone che offrono un servizio e che il beneficiario di questo servizio ne tragga in qualche modo vantaggio. Mi sembra ragionevole che il beneficiario in qualche modo ripaghi il servizio ricevuto, per amor di correttezza. A guardarsi bene intorno temo che sia solo una mia impressione, ma facciamo finta (per ora) che nel mondo siano tutti bravi e corretti.
L'entita' del compenso, poi, e' un problema successivo e non meno grave. Si tende a giudicare e valutare solamente quei pochi minuti (120 al massimo, ma proprio a dir tanto... ce ne vuole di tempo e affiatamento per arrivare a due ore...) di performance, come se tutto lo sforzo e la dedizione degli "operai" verso il loro compito sia li' concentrata. Tutta la fase precedente che comprende preparazione, acquisto e manutenzione dell'equipaggiamento e allenamento ovviamente non viene neanche presa in considerazione. Come se a conti fatti non esistesse.
Eppure racchiude un buon 95% del tempo che "l'operaio" dedica alla sua attivita' e il tempo, si sa, e' denaro.

Dopo un po' di tempo trascorso a combattere con queste "consuetudini" uno ci fa il callo. Si demoralizza un poco ma, se e' intenzionato a continuare, inizia a sviluppare un certo criticismo e ad esercitare una certa schizzinosita' nei confronti delle varie opportunita' che gli si presentano. Inizia ad essere "choosy", se vogliamo.

Ho paura pero' che qualcosa di molto simile si stia riproponendo nell'ambiente scientifico.
Quando si lavora in questo ambito e si ottengono dei nuovi risultati, o si arriva al punto di una scoperta, in genere si condivide quel che si e' trovato con il resto della comunita' scientifica, di modo che tutti possano sia beneficiarne che impegnarsi a confermare la veridicita' di quanto trovato. Questo modo di procedere e' ormai alla base del progresso scientifico. Diventa quindi cruciale fare si' che il lavoro sia accessibile a chiunque ne abbia bisogno in maniera rapida e fedele.
Per adempiere a questa necessita' sono nate nel corso degli anni delle riviste specializzate che si assumono il compito di ricevere veri e propri "articoli" dai vari ricercatori nei quali questi ultimi riassumono (piu' o meno) brevemente il loro lavoro corredandolo di tutte le informazioni opportune. La rivista si preoccupa di leggere, verificare e controllare l'articolo inviatole e in caso positivo si occupa dell'impaginazione, della stampa e della diffusione. Ovviamente tutto questo ad un prezzo da loro stabilito.
Negli ultimi anni pero' si e' diffusa sempre piu' la pratica di digitalizzare le riviste, al fine di aiutare la diffusione e la reperibilita' degli articoli scientifici, ma al tempo stesso il prezzo del singolo articolo (o dell'abbonamento) e' aumentato mostruosamente.
Io ci vedo gia' un controsenso. Alla riduzione della necessita' di stampare su carta la rivista, e quindi ad una riduzione di materia prima, e' seguito un aumento del prezzo del prodotto. Giusto per buttare li' qualche numero, negli ultimi 30 anni il prezzo medio di una rivista e' cresciuto del 250%, a fronte di un'inflazione (credo sia riferita agli USA) del 68%. Se lavorate nel campo della fisica un'abbonamento per un anno ad una di queste riviste costa in media $3700. 
Fortunatamente non sono i ricercatori o i professori a pagare di tasca loro, ci pensano le universita' e gli istituti di ricerca ma sono comunque spese che gravano sul bilancio dello stato.
Ma di tutto questo la cosa che piu' mi lascia perplesso e' che non sono le riviste a produrre il contenuto che distribuiscono. Mi spiego meglio: se io esco e compro un quotidiano ogni articolo che vi trovo pubblicato e' stato scritto da un giornalista dipendente del quotidiano stesso. Egli viene pagato dal quotidiano per scrivere articoli, li scrive, vengono pubblicati e letti dal lettore. Stessa cosa se esco e compro un Topolino. Le storie vengono scritte da persone pagate per farlo, disegnate e inchiostrate da persone appositamente assunte e poi pubblicate. Quando io pago per un quotidiano o per un Topolino sto pagando l'editore e indirettamente anche quei signori che hanno scritto/disegnato/inchiostrato quel che vado a leggere. Fin qui nulla di sbagliato.
Nel caso delle riviste specialistiche non e' cosi'. Sono i ricercatori a scrivere gli articoli e a preparare le figure, ed essi non sono dipendenti della rivista, non vengono appositamente pagati per scrivere. Anzi, pagano per pubblicare il loro lavoro. Non solo, neanche le persone che controllano ed esaminano gli articoli proposti sono impiegati della rivista, ma altri ricercatori o professori che svolgono questa mansione gratuitamente.
A maggior ragione le cifre che vengono pagate per pubblicare un articolo o anche solo per leggerlo mi sembrano illogiche. Per non parlare poi del fatto che chi cerca di documentarsi riguardo un particolare argomento non sempre e' in grado di stabilire a priori se e quanto un dato articolo gli sara' d'aiuto, non prima di comprarlo e leggerlo. In questo processo di ricerca possono venir sprecati una gran quantita' di soldi.
Ci sono persone che cercano di cambiare questo modo di operare ma non e' affatto facile. Non e' facile perche' nei concorsi il "prestigio" di un articolo e' definito dalla "prestigiosita'" della rivista su cui e' pubblicato. Lo stesso articolo pubblicato su riviste diverse (con diverso Impact Factor) puo' avere piu' o meno peso nel valutare la carriera di un ricercatore in sede di concorso. Ne consegue che le riviste possono benissimo rifiutarsi di collaborare alla realizzazione di un sistema piu' aperto ed efficiente, tanto, forti del loro Impact Factor, si assicurano la clientela automaticamente.

Non so voi, ma io ci vedo un problema bello grosso.

Bakko




p.s: per chi volesse qualche info in piu', buona parte di questo post e' una interpretazione di un video apparso su PhDComics qualche settimana fa. Il video e' in inglese quindi i non anglofoni dovranno adattarsi...

venerdì 26 ottobre 2012

Quel che accade nella scienza

Certe volte ho l'impressione che diamo per scontate un po' troppe cose. Ho ancora dei vaghi ricordi di quando ero ragazzino ed ero alle scuole elementari. Eravamo sull'orlo dell'avvento dei telefoni cellulari dal momento che se ne iniziava a far uso nelle famiglie ma non erano ancora una parte tanto fondamentale della nostra vita quotidiana. E allora era normale che quando volevi andare a giocare a calcetto con gli amici partiva il solito giro di citofonate, seguite dall'implorazione per il permesso di scendere al campetto, e di solito la partita terminava o perché sapevi di avere un coprifuoco prestabilito e di dover tornare a casa, o perché semplicemente udivi l'urlo di richiamo che sanciva la fine dei giochi.

Beh oggi una cosa del genere è pura fantasia. Lo sviluppo tecnologico degli ultimi 20 anni ha letteralmente decimato la distanza tra le persone. Oggi siamo in grado di comunicare istantaneamente senza particolari restrizioni geografiche o tempistiche e anzi, lo facciamo forse troppo spesso. Eppure questa cosa non mi da fastidio, anzi ci sono abituato. Salvo quei momenti in cui mi fermo a riflettere su quell'oggetto straordinario che teniamo in mano tutti i giorni e che ormai è in qualche modo una estensione della nostra persona.

Come diavolo fa a funzionare? Come abbiamo fatto ad arrivare ad un tale livello di sofisticazione per cui un oggetto così piccolo racchiude una potenza di calcolo tale da essere circa 500 volte superiore a quella dei calcolatori che resero possibile il viaggio verso la luna nel '69 (la leggenda vuole che si trattasse dell'equivalente di due Commodore64, che di base aveva una CPU che operava a 1MHz di frequenza di clock). Un oggetto del genere è in grado di effettuare un numero spaventoso di somme o sottrazioni al secondo, operazioni che vengono svolte manipolando unità fondamentali binarie (che possono quindi assumere solo due possibili valori predefiniti) chiamate comunemente 'bit' e che vengono manipolate per via di cambi di corrente e tensioni all'interno del microprocessore.

Si tratta quindi di oggetti che hanno raggiunto ormai un livello di complicazione enorme, principalmente dovuto alle richieste di potenza e miniaturizzazione, ma che alla fin fine operano su principi fisici che sono ben noti ormai dalla metà del 19° secolo (per essere onesti la comprensione del funzionamento dei semiconduttori non avvenne fino al 1930, ma l'elettromagnetismo in se' è ben più vecchio).
E la nostra vita, oggi come oggi, non può più prescindere da tutti quegli apparati che operano secondo questa tecnologia. Per questo li diamo per scontati. E alla fin fine non è tanto importante capire perché funzionino, quale stregoneria ci sia dietro, l'importante è che funzionino.

Ma ogni volta che finisco in questi ragionamenti, in cui scavo a ritroso cercando di capire cosa c'è veramente alla base del funzionamento di un oggetto, non posso fare a meno di pensare che ci sono state una o più persone che per prime, pionieristicamente, gettarono la base per la costruzione di tutti quegli oggetti che oggi siamo abituati a vedere ovunque. Ma se queste persone non si fossero mai interessate a problemi che la maggior parte della gente loro contemporanea probabilmente considerava poco interessanti, oggi non avremmo computer e telefoni cellulari.

Alla fine l'unica vera spinta alla scoperta, e al successivo progresso che ne deriva, risiede nella curiosità. Curiosità che, in barba ai proverbi, non è donna ma scienziato. Si può dire che la curiosità è uno dei prerequisiti necessari per potersi occupare di scienza. È la curiosità che genera le domande, ed è la stessa identica curiosità che ti spinge a cercare le risposte, e così facendo guadagniamo ogni volta un pezzetto in più di consapevolezza su come funziona il mondo.

Ci interessa davvero capire come funziona il mondo? Io penso di sì, perché altrimenti saremmo già morti di fame nel paleolitico.

Ci sta bene una precisazione. Da bravo (e su questo possiamo anche trattare) fisico quando dico "capire come funziona il mondo" in realtà intendo dire "essere in grado di descrivere una gamma di fenomeni naturali più ampia possibile". Qualcosa del tipo "se metto la mano sul fuoco mi brucio" o "se lancio un sasso in verticale nell'aria questo ricasca e mi sfregia la faccia", solo ogni volta piu' accurato e piu' elaborato.

Il problema è che il mondo non sempre (anzi mai) ci fa il favore di comportarsi esattamente allo stesso modo sotto gli stessi stimoli, quindi spesso e volentieri siamo chiamati a dare una descrizione di ciò che "probabilmente" può accadere.

E' chiaro che questa è una rogna gigantesca, non saremo mai in grado di prevedere esattamente quello che accadrà ad un certo sistema con tutta l'accuratezza che desideriamo, certe volte dobbiamo accontentarci di ragionare in termini di ciò che è più o meno probabile che accada.
La precisione con cui siamo in grado di "predire il futuro" dipende molto sia dalle nostre conoscenze della situazione presente che dalla accuratezza con cui sappiamo descrivere tutti i possibili processi coinvolti.
Ad esempio sembrerei piuttosto ridicolo se me ne uscissi affermando che domani il sole non sorgerà. Sappiamo tutti che lo farà e nessuno, neanche per un istante, si fermerà mai a pensare il contrario. Questo perché dopo secoli e secoli di esperienza (ogni volta che c'alziamo la mattina e guardiamo fuori dalla finestra a conti fatti stiamo misurando l'esistenza del sole, no?) ci permettono di misurare la probabilità di "sorgimento del sole" con una precisione mostruosa. Se volete dei numeri possiamo stimarla essere compresa tra il 99.999993777% e il 100%, che è praticamente la certezza assoluta che il sole domani si alzerà in cielo.
(Per gli interessati la stima è fatta assumendo una distribuzione binomiale con un numero di tentativi e successi pari ai giorni degli ultimi 50000 anni, ho usato 50000 anni perche' secondo Wikipedia è il periodo in cui l'homo sapiens ha raggiunto la modernità comportamentale. A guardarmi un po' intorno direi che Wikipedia si sbaglia)
(Per i nerd tra gli interessati non si puo' usare la formuletta standard per l'intervallo di confidenza binomiale, ma bisogna usare l'intervallo di Clopper-Pearson, perché la probabilità campionaria è esattamente 1)

Laddove la nostra conoscenza scarseggia di molto (anyone says "terremoti"?) purtroppo la stima non sarà mai così precisa e dobbiamo sempre ricordarci che quando si parla di probabilità può veramente succedere tutto e nulla è già scritto.
Ma in questo non c'è nessuna colpa. È solo il risultato di un metodo di indagine ormai ben collaudato e, nonostante tutto, piuttosto fruttifero. In fin dei conti non sentirete mai uno scienziato serio parlare in termini assoluti, ma sempre in termini di probabilità, margini di errore, test di ipotesi e così via. E la cosa che veramente mi piace è che ogni volta che si dichiara di aver misurato una certa quantità, a conti fatti la si sta confinando all'interno di un intervallo di valori che siamo sicuri contenga il vero valore deciso dalla natura. Ma all'interno di quell'intervallo ogni numero è buono come un altro e in fin dei conti ogni affermazione del genere e' una spontanea, autentica, incontrovertibile ammissione di ignoranza.
E questo è bene, perché è dalla consapevolezza dell'ignoranza che nasce la curiosità.

E allora è facile prendersela con la scienza, perché è in grado di darci risposte praticamente esatte su cose che ormai non ci interessano più (chi veramente si chiede ancora se il sole sorgerà? Secondo me anche i primi homo sapiens dopo un paio di mesi hanno smesso di preoccuparsene) ma quando si tratta di cose importanti brancola nel buio e non può sblianciarsi in favore di nessuna ipotesi.

Ecco, prima di pensare mai una cosa del genere (spero che non succeda, ma non si sa mai) prendete in mano il vostro cellulare e guardatelo per 10 secondi. Poi guardatevi intorno. Fermatevi a pensare a tutto quello che la scienza e la tecnologia ci hanno regalato negli ultimi 20 anni. 
Poi vi sfido a riprovare a prendervela con gli scienziati.

La messa (in berta) è finita, andate in pace.

Bakko


lunedì 22 ottobre 2012

Weekend improduttivi


Sicuramente a tutti voi sarà capitato almeno una volta di arrivare al lunedì mattina, svegliarsi al suono della radiosveglia (che, se come me avete serie difficoltà a trovare sufficiente motivazione ad alzarvi dal letto, starà passando uno qualsiasi degli inascoltabili successi contemporanei, ultimo singolo dei Muse in primis) trascinarsi in bagno e, una volta conquistata la doccia, cercare di dare un significato a quella impenetrabile sensazione di non aver concluso nulla nel precedente fine settimana.
Ecco probabilmente non c’è sensazione peggiore, alla mattina. Ti costringe a rimuginare sui due giorni appena passati esaminando ogni singolo secondo cercando di stabilire se esso sia stato sprecato oppure no. E alla fine chi è che stabilisce l’utilità del vostro tempo? E su che basi?
Ci sono parecchie risposte prevedibili a tale domanda. Potremmo essere noi stessi ad assegnare un valore ad ogni istante di tempo che abbiamo trascorso, oppure potremmo arguire che nessuno ha idea di quanto un istante sia stato fruttifero o meno dato che nessuno può esaminare con certezza tutte le infinite alternative del caso.

A me succede spesso di avere di questi dubbi, probabilmente scatenati al pensiero che da qui al prossimo weekend ci passano cinque giorni di intenso lavoro (chi mi conosce un minimo probabilmente si starà sganasciando dalle risate, tipo Marco, ma questa è un’altra storia...) al termine dei quali sto daccapo a dodici.
In ogni caso ho imparato a non farne troppo un dramma e a sfruttare queste situazioni per dedicarmi a quelle attività che richiedono troppa concentrazione o tempo consecutivo per essere svolte la sera dopo cena (no, in genere non si tratta delle pulizie di casa, anche se sarebbe meglio).

Capita così che questi weekend ‘vuoti’ siano l’unica mia possibilità per dedicarmi in maniera approfondita alla musica, e non nel senso di far pratica o esercizio perché per quello basta veramente la volontà di prendere lo strumento un’oretta ogni sera e ‘giocarci’ per non ritrovarsi poi settimane dopo completamente arrugginiti.
No, sto parlando della composizione. 

In effetti detta così può sembrare un po’ pomposo e presuntuoso. “Composizione”. Mozart componeva, Beethoven sicuramente componeva pure lui, Berio... che ne parliamo a fare? Frank Zappa a modo suo componeva, eccome. Eccezion fatta per tutta la gente loro pari che non ho voglia di includere, ho qualche dubbio su tutti gli altri, me per primo. Per questo preferisco l’espressione “scrivere”, anche se non scrivo mai su carta, o ancora meglio “buttare giù”.

Detto ciò ci sono tanti modi di scrivere (o buttare giù) musica e ognuno ha il suo, la cui validità dipende da persona a persona. Quello che seguo io non è per nulla inusuale, anzi è forse l’approccio più diffuso ma non per questo esente da limitazioni o difetti. Per quanto possa sembrare banale il mio approccio si può semplicemente riassumere in una parola. Suonare. 
Sì, perché un brano, o un’idea, non cadono per magia dal cielo. Ci dev’essere un’origine, una sorgente, insomma il seme dell’idea da qualche parte deve arrivare. E non arriva da solo, deve essere ricercato o perlomeno stimolato a comparire. Uno dei modi migliori per far ciò è prendere semplicemente lo strumento e suonare, cercando di evitare di impuntarsi sull’obiettivo e di ignorare i suggerimenti del cervello. La tentazione di strutturare la composizione fin dall’inizio, di architettare una voluta complessità o di lavorare su più livelli può essere forte ma deve essere una fase successiva, prima deve venire l’idea.
Ormai c’ho fatto caso un po’ troppe volte, l’ispirazione non sta al nostro comando. Non decide di farsi vedere solo perché glielo abbiamo chiesto noi anzi, per ripicca, sceglie di farci visita proprio quando non abbiamo molto tempo per darle ascolto (se per voi non è così sappiate che avete la mia più profonda invidia, evidentemente devo aver fatto qualcosa per indispettire le muse). E allora capita spesso di assistere ai più disperati tentativi di fissare un’idea prima che cada nel dimenticatoio (cosa che inevitabilmente succede dopo pochi giorni). Per esempio ricordo ancora il mio insegnante di teoria musicale che a lezione ci raccontava di come lui andasse sempre in giro con uno di quei registratorini portatili per musicassette (per intenderci quelli che si vedono nelle serie TV dove il protagonista prende i suoi appunti o le sue note mentali registrandole su una cassetta, quasi sempre con un incipit del tipo “Diario personale del dott. Zapotec, giorno 27 Ottobre 2010, ancora l’ennesimo fallimento, etc...”) e di come la usasse per annotare le melodie che gli balenavano in mente nei momenti più assurdi, e di come alle volte la cosa risultasse comica. Immaginate voi di vedere per strada un signore distinto che all’improvviso tira fuori un apparecchietto, se lo porta alla bocca, preme un bottone e inizia a canticchiare, dieci secondi dopo spinge un altro bottone, si rimette in tasca l’apparecchio e se ne va per la sua strada. 
Ma sto divagando.
Il punto chiave di questo discorso è che le idee arrivano quasi sempre nel momento meno adatto ed uno deve essere bravo nel prenderne nota prima che vengano dimenticate. Io ormai ho rinunciato da tempo a tutte quelle idee che mi vengono in mente per strada, non sono tipo da registratore portatile e, sinceramente, non mi va di sembrare uno psicopatico più di quanto già non sembri per strada. Faccio tuttavia uno sforzo mostruoso contro la mia stranota pigrizia per annotare tutte quelle idee che mi vengono mentre strimpello a casa la sera, prima o dopo cena. 
Non che accada spesso eh... non è che ogni volta che uno prende in mano lo strumento esce fuori l’idea del secolo, anzi... Il più delle volte mi trovo a ripetere gli stessi fraseggi, gli stessi accordi per decine di minuti (con buona pace dei miei coinquilini che ormai spero abbiano capito che semplicemente c’è qualcosa nella mia capoccia che non va, ma non è niente di grave) per cercare “assaporarli” in fondo e coglierne tutte le sfumature possibili. La maggior parte delle volte è come quando uno si fissa a ripetere centinaia di volte la stessa parola fino al punto in cui essa perde di significato e inizia ad avere un suono buffo, e a quel punto non c’è molto da fare, se non ne sei convinto probabilmente non è una buona idea, e se non riesci proprio a suonare nulla di diverso tanto vale posare lo strumento e lasciar perdere, domani andrà meglio.

L’importante comunque è aprire tutto. Non nel senso Boris-iano del termine. Nel senso di metter da parte la razionalità e lasciare che le idee escano fuori da sole, anche quelle che non sono un granchè (la maggior parte ricade in questa categoria, ma non c’è modo di saperlo a priori, no?). Anche questo non è facile e richiede allenamento. Personalmente trovo che il barbatrucco migliore sia quello di pensare a tutt’altro, impedire al cervello di concentrarsi su quello che le mani stanno suonando. Basta anche solo pensare a cosa preparare per cena, ad un problema irrisolto a lavoro, a quello che ha fatto la Roma domenica scorsa, quello che ve pare. Ogni tanto però bisogna buttare un’orecchio a quello che sta succedendo in basso, per capire se abbiamo trovato qualcosa di meritevole d’attenzione.
Quando questo succede il lavoro vero e proprio è appena cominciato. Intanto bisogna trovare il modo di non perdere l’idea e di fissarla immediatamente. In genere uso la webcam del portatile in modo da poter rivedere anche gli accordi e i rivolti ma non è obbligatorio.

Bisogna poi passare alla fase successiva, un conto è un’idea abbozzata e un conto è un brano fatto e finito. Tra i due ci passa un abisso in genere. E qui si arriva al punto in cui c’è bisogno di tempo e concentrazione, bisogna capire quali sono le condizioni migliori per tirare fuori tutto il potenziale dell’idea e farla fiorire. 
Dettagli come il tempo (sta bene suonata a 120 bpm? O a 152? È forse meglio swingarla o lasciarla dritta?) la tonalità e l’arrangiamento vanno decisi subito, perché bisogna sapere dove si sta andando a parare altrimenti si rischia di procedere tentoni e al buio e si finisce per non combinare una mazza.

Non è detto che la strada sia in discesa a questo punto, il mio hard disk è pieno di brani che sono morti esattamente a questo punto. Può darsi che lo spunto iniziale non sia così eccezionale come pensavamo all’inizio o semplicemente bisogna cambiare approccio a livello d’arrangiamento, e comunque bisogna sempre essere nel mood giusto.
Ma quando tutto va per il verso giusto te ne accorgi subito.
Quello è il momento di mettersi davanti ai microfoni e iniziare a buttare giù le prime tracce, lavorare alla struttura, permettere al cervello di intromettersi nel processo e lasciargli fare da “architetto” escogitando stacchi, cambi di tempo, armonizzazioni e così via. 
Una volta ottenuta una bozza completa del brano (nel mio caso spesso e volentieri si tratta di un’unica traccia di chitarra che va dall’inizio alla fine del brano) si inizia a fare sul serio, è il momento di scrivere tutte le altre parti (voi o chi per voi, se suonate in una band e scrivete tutti insieme) usando la bozza come base per ricordarvi in ogni momento qual è l’obiettivo finale. Infine è buona norma rifare per ultima la traccia base su cui avete poggiato tutte le altre (spesso e volentieri perché contiene imperfezioni o può essere migliorata per interagire con tutte le altre parti che avete inserito nel frattempo) e avete sostanzialmente finito.

Rimangono da sistemare dettagli tecnici come mixaggio e post-produzione (se risucite a farlo da soli, sossodisfazioni!) e potete finalmente chiamarla una giornata, per usare un inglesismo.

Siamo quasi alla fine ma non bisogna avere la fretta di pensare che l’opera sia conclusa. In genere si arriva a questa fase dopo ore e ore di registrazioni e riascolti in cuffia e le nostre orecchie, come è normale che sia, si stancano dopo uno stress prolungato. La concentrazione piano piano se ne va, anzi in genere è la prima cosa che vi abbandonerà, specie dopo la quarta volta che cercate di registrare un passaggio particolarmente impegnativo. 
È quindi buona norma lasciare passare qualche ora o, meglio ancora, dormirci su e riprendere l’ascolto ad orecchie fresche, riesaminare il vostro lavoro con una mentalità più distaccata possibile, come fosse opera di un altro e, se ci sono dettagli che non vi soddisfano dovete rimettervi le cuffie e correggerli, e ripetere il processo finchè non siete soddisfatti. Chiedete pure consiglio a colleghi ed amici, se vi fidate del loro giudizio in materia (non vado certo dar macellaio sotto casa o dal fruttivendolo all’angolo a chiedergli se trova pacchiana un’armonizzazione a tre voci, a meno che non mi abbia dimostrato un briciolo di competenza in materia) e non scartateli a priori, può benissimo capitare che una trovata che a voi è sembrata geniale in realtà si riveli una fantozziana cagata pazzesca, fa parte del gioco...

E alla fine quando vi toglierete le cuffie per l’ultima volta avrete pieno diritto di sentirvi soddisfatti, orgogliosi e stanchi. Perché, ve lo assicuro, vi sentirete stanchi e deconcentrati ma avrete l’impressione di aver costruito qualcosa di magnifico (se così non è iniziate a preoccuparvi, siete la prima persona a doverla pensare così, non potete pretendere che lo facciano gli altri per voi). Vi troverete ad aver impegnato due giornate intere per un risultato che in media non supera i 5 minuti, ma ne sarà valsa la pena.

Quando questo succede, come negli ultimi due giorni, la mattina dopo il weekend sembra sempre meno ‘vuoto’.


Bakko





Some thoughts

Se c’è una cosa che mi son sempre ripromesso di fare è senz’altro quella di provare a tenere un blog. Peccato però che la mia pigrizia più che leggendaria abbia sempre remato contro, complice anche il fatto che più ci penso meno ho da dire.

Non mi sorprenderebbe se questo risultasse l’ennesimo tentativo malriuscito di impegnarmi in qualcosa di continuativo...

Ma prometto che ci proverò, se non altro per amor proprio e per invidia di coloro che riescono a tenerlo, un blog... (sì, Martina, Luca e Patrizio-Cristiano, parlo di voi!).

Approfitto allora del primo post per segnalare l’imminente uscita del nuovo lavoro dei Punch Brothers “Ahoy”, in arrivo per il 13 Novembre.


Il singolo estratto è una cover di Josh Ritter (sinceramente non ho idea di chi sia) . Da bravo fanboy ho già preordinato una copia anche perché sono molto curioso di vedere dove andranno a parare stavolta.
A questo punto ci sta bene una piccola digressione. Tanto se state leggendo qua vuol dire che non c’avete niente di meglio da fare.
I Punch Brothers nascono dall’esperienza solista del mandolinista Chris Thile iniziata dopo lo scioglimento dei Nickel Creek (ci tornerò in futuro, meritano sicuramente uno spazio tutto loro). Thile, dopo aver sperimentato abbastanza in due album solisti mentre i Nickel Creek erano ancora in attività, forma la “How to grow a band” come proseguimento della sua carriera dopo i NC e incide il suo terzo disco solista “How to grow a woman from the ground”. 
Questo disco è sostanzialmente l’inizio di quelli che subito dopo diventeranno i Punch Brothers. 


Il disco, del 2006, è un piccolo capolavoro di composizione e arrangiamento e sostanzialmente si differenzia dai primi due lavori solisti di Thile in cui la componente sperimentale era molto accentuata e la formazione variabile da brano a brano. A pieno titolo va considerato come il primo disco dei Punch Brothers, anche se sarà il successivo “Punch”, nel 2008, ad essere il primo vero lavoro della band.



Vorrei evitare di mentire, se possibile, quindi lo dico subito chiaro e tondo. “Punch” è un album di difficile ascolto. Ma veramente difficile. 
Nonostante il brano di apertura (“Punch Bowl”) apra con uno dei riff più subdoli mai concepiti (mi son trovato a canticchiarlo inconsciamente per un’intera settimana di fila) è pieno di dissonanze e tensioni che, nonostante siano ben concepite e orchestrate, possono spaventare molti ascoltatori. Non aiuta certo la suite da 40 minuti “The blind leaving the blind”, composta da Thile per affrontare la difficile esperienza del suo divorzio nel 2004. A tutt’oggi ancora non sono riuscito ad apprezzare in pieno tutti e 4 i movimenti della suite, immagino mi ci vorrà più pazienza e concentrazione.

Ma arriviamo al 2010 e al secondo disco della band: “Antifogmatic”. Come succede a volte in una band, dopo un primo periodo di assestamento e di tentativi si raggiunge alfine un punto in cui l’identità del gruppo viene finalmente stabilita in termini di sonorità, stile compositivo, etc... Ed è esattamente quello che succede in questo disco, Thile & co. riescono finalmente a definire chi sono, cosa vogliono fare, cosa vogliono dire e come lo vogliono dire. Il disco si lascia alle spalle le complicate sonorità di “Punch” e ristabilisce l’impronta sonora che la band aveva in “How to grow a woman from the ground” facendo però tesoro dell’esperienza compositiva guadagnata con “Punch”.


Ed ecco che la band si guadagna la popolarità che merita (almeno negli US...), ospiti da Letterman, tour continui, concerti sempre affollati e così via.

La novità arriva nel 2012. Il terzo lavoro della band “Who‘s feeling young now?” lascia tutti (o perlomeno me) a bocca aperta.


Cambiano completamente le carte in tavola. Si rinuncia al dettaglio iperrealistico in sede di registrazione e si inizia ad optare per un suono più “radiofonico”. Le virgolette sono d’obbligo e ci tengo a specificare che l’accezione del termine è tutto fuorchè negativa. 
In sede di mixing la band inizia a osare in termini di effettistica (riverberi e distorsioni in un disco di musica acustica? Perché no? Il contrabbasso distorto nella title-track è una delle cose più fighe che ho mai sentito in vita mia. Roba da orgasmo acustico) e anche a livello compositivo inizia a stravolgere gli schemi e produrre chicche pop di altissimo livello. Una cosa del tipo “Justin Timberlake meets Bill Monroe”. Una menzione d’onore la merita la traccia di apertura “Movement and Location”. Praticamente la band grida “Radiohead chi?”, per poi ricordarsene nella penultima traccia quando ci propone una azzeccatissima cover di “Kid A” (c’è chi pensa, e io condivido, che sia addirittura meglio dell’originale, vero Patriziè?).

Insomma, in tutta la loro carriera ‘sti 5 stronzi non ne hanno mai sbagliata una e mi sembrerebbe strano se iniziassero proprio adesso. A maggior ragione vista la grande svolta che hanno avuto con “Who’s feeling young now” sono decisamente curioso di sentire cosa proporranno in “Ahoy”.

La messa (‘nder retro) è finita. Andate in pace.


Bakko