martedì 6 novembre 2012

Meglio pochi...

...ma buoni. Lo dice la saggezza popolare. E quella non sbaglia mica.
Beh mica tanto, dipende sempre dai casi. Per esempio alla mia band (come a tante altre a questo mondo) capito' di esibirsi in un pub dove il gestore pretendeva di pagarci in rapporto a quanti avventori riuscissimo a procurargli. E allora vagli a spiegare che "meglio pochi ma buoni". Per non parlare poi del fatto che, a fine serata, ci pago' l'equivalente di una miseria.
Ma questo, purtroppo, e' un atteggiamento fin troppo diffuso nell'ambiente musicale. Sembra quasi che la svalutazione di quella che, a conti fatti, e' pura e semplice manodopera sia ormai entrata nella pratica comune. 
E' un argomento che ho gia' affrontato in passato, altrove, ma che mi preme richiamare brevemente perche' ho come l'impressione che si stia estendendo ad altri ambiti.
Iniziamo stabilendo che ci sono una o piu' persone che offrono un servizio e che il beneficiario di questo servizio ne tragga in qualche modo vantaggio. Mi sembra ragionevole che il beneficiario in qualche modo ripaghi il servizio ricevuto, per amor di correttezza. A guardarsi bene intorno temo che sia solo una mia impressione, ma facciamo finta (per ora) che nel mondo siano tutti bravi e corretti.
L'entita' del compenso, poi, e' un problema successivo e non meno grave. Si tende a giudicare e valutare solamente quei pochi minuti (120 al massimo, ma proprio a dir tanto... ce ne vuole di tempo e affiatamento per arrivare a due ore...) di performance, come se tutto lo sforzo e la dedizione degli "operai" verso il loro compito sia li' concentrata. Tutta la fase precedente che comprende preparazione, acquisto e manutenzione dell'equipaggiamento e allenamento ovviamente non viene neanche presa in considerazione. Come se a conti fatti non esistesse.
Eppure racchiude un buon 95% del tempo che "l'operaio" dedica alla sua attivita' e il tempo, si sa, e' denaro.

Dopo un po' di tempo trascorso a combattere con queste "consuetudini" uno ci fa il callo. Si demoralizza un poco ma, se e' intenzionato a continuare, inizia a sviluppare un certo criticismo e ad esercitare una certa schizzinosita' nei confronti delle varie opportunita' che gli si presentano. Inizia ad essere "choosy", se vogliamo.

Ho paura pero' che qualcosa di molto simile si stia riproponendo nell'ambiente scientifico.
Quando si lavora in questo ambito e si ottengono dei nuovi risultati, o si arriva al punto di una scoperta, in genere si condivide quel che si e' trovato con il resto della comunita' scientifica, di modo che tutti possano sia beneficiarne che impegnarsi a confermare la veridicita' di quanto trovato. Questo modo di procedere e' ormai alla base del progresso scientifico. Diventa quindi cruciale fare si' che il lavoro sia accessibile a chiunque ne abbia bisogno in maniera rapida e fedele.
Per adempiere a questa necessita' sono nate nel corso degli anni delle riviste specializzate che si assumono il compito di ricevere veri e propri "articoli" dai vari ricercatori nei quali questi ultimi riassumono (piu' o meno) brevemente il loro lavoro corredandolo di tutte le informazioni opportune. La rivista si preoccupa di leggere, verificare e controllare l'articolo inviatole e in caso positivo si occupa dell'impaginazione, della stampa e della diffusione. Ovviamente tutto questo ad un prezzo da loro stabilito.
Negli ultimi anni pero' si e' diffusa sempre piu' la pratica di digitalizzare le riviste, al fine di aiutare la diffusione e la reperibilita' degli articoli scientifici, ma al tempo stesso il prezzo del singolo articolo (o dell'abbonamento) e' aumentato mostruosamente.
Io ci vedo gia' un controsenso. Alla riduzione della necessita' di stampare su carta la rivista, e quindi ad una riduzione di materia prima, e' seguito un aumento del prezzo del prodotto. Giusto per buttare li' qualche numero, negli ultimi 30 anni il prezzo medio di una rivista e' cresciuto del 250%, a fronte di un'inflazione (credo sia riferita agli USA) del 68%. Se lavorate nel campo della fisica un'abbonamento per un anno ad una di queste riviste costa in media $3700. 
Fortunatamente non sono i ricercatori o i professori a pagare di tasca loro, ci pensano le universita' e gli istituti di ricerca ma sono comunque spese che gravano sul bilancio dello stato.
Ma di tutto questo la cosa che piu' mi lascia perplesso e' che non sono le riviste a produrre il contenuto che distribuiscono. Mi spiego meglio: se io esco e compro un quotidiano ogni articolo che vi trovo pubblicato e' stato scritto da un giornalista dipendente del quotidiano stesso. Egli viene pagato dal quotidiano per scrivere articoli, li scrive, vengono pubblicati e letti dal lettore. Stessa cosa se esco e compro un Topolino. Le storie vengono scritte da persone pagate per farlo, disegnate e inchiostrate da persone appositamente assunte e poi pubblicate. Quando io pago per un quotidiano o per un Topolino sto pagando l'editore e indirettamente anche quei signori che hanno scritto/disegnato/inchiostrato quel che vado a leggere. Fin qui nulla di sbagliato.
Nel caso delle riviste specialistiche non e' cosi'. Sono i ricercatori a scrivere gli articoli e a preparare le figure, ed essi non sono dipendenti della rivista, non vengono appositamente pagati per scrivere. Anzi, pagano per pubblicare il loro lavoro. Non solo, neanche le persone che controllano ed esaminano gli articoli proposti sono impiegati della rivista, ma altri ricercatori o professori che svolgono questa mansione gratuitamente.
A maggior ragione le cifre che vengono pagate per pubblicare un articolo o anche solo per leggerlo mi sembrano illogiche. Per non parlare poi del fatto che chi cerca di documentarsi riguardo un particolare argomento non sempre e' in grado di stabilire a priori se e quanto un dato articolo gli sara' d'aiuto, non prima di comprarlo e leggerlo. In questo processo di ricerca possono venir sprecati una gran quantita' di soldi.
Ci sono persone che cercano di cambiare questo modo di operare ma non e' affatto facile. Non e' facile perche' nei concorsi il "prestigio" di un articolo e' definito dalla "prestigiosita'" della rivista su cui e' pubblicato. Lo stesso articolo pubblicato su riviste diverse (con diverso Impact Factor) puo' avere piu' o meno peso nel valutare la carriera di un ricercatore in sede di concorso. Ne consegue che le riviste possono benissimo rifiutarsi di collaborare alla realizzazione di un sistema piu' aperto ed efficiente, tanto, forti del loro Impact Factor, si assicurano la clientela automaticamente.

Non so voi, ma io ci vedo un problema bello grosso.

Bakko




p.s: per chi volesse qualche info in piu', buona parte di questo post e' una interpretazione di un video apparso su PhDComics qualche settimana fa. Il video e' in inglese quindi i non anglofoni dovranno adattarsi...

Nessun commento:

Posta un commento