venerdì 5 aprile 2013

La voce del gigante (2)


(Questa è la seconda parte del post. La prima si trova qui)

AMS è un esperimento internazionale sito da ormai due anni su un lato della stazione spaziale internazionale (ISS) il cui compito è misurare con grande accuratezza le varie componenti dei raggi cosmici. 


Detta così sembra una bazzecola, di raggi cosmici sulla Terra ne piovono a secchiate ogni secondo ma non è così semplice. Certo nello spazio è più facile perché ci si libera di una grande fonte di rumore per questo tipo di esperimenti che è l’atmosfera terrestre.
Allo stesso modo in cui un raggio cosmico può andare a cozzare contro uno dei nuclei di idrogeno che costituiscono il mezzo interstellare esso può andare a sbattere contro uno dei nuclei di azoto o ossigeno che si trovano nell'atmosfera terrestre e dare origine ad altre particelle, alcune delle quali andranno a sbattere a loro volta contro un altro nucleo e pian piano creeranno quello che viene detto uno sciame di particelle. Il problema è che se si va a porre l'esperimento nell'atmosfera terrestre ogni tanto capiterà di osservare una particella proveniente da uno sciame e scambiarla per un raggio cosmico, per questo motivo è meglio recarsi nello spazio.

Tecnicamente questa è la seconda tornata della missione di AMS, preceduta nel 1998 da un volo di pochi giorni a bordo dello space shuttle. Il punto è che la sortita a lungo termine di AMS è stata preceduta nel 2006 dal lancio dell’esperimento PAMELA, tuttora funzionante e in orbita a bordo di un satellite russo.


Quelli di voi che mi conoscono (quindi tutti) potrebbero pensare che questo è il “momento pubblicità” visto che faccio parte di questo esperimento da circa tre anni ormai. Un po’ è vero, e un po’ non si può parlare dei risultati presentati ieri da AMS senza menzionare PAMELA. 

Infatti la prima evidenza concreta che la frazione di positroni aumenti con l’energia invece di diminuire come previsto dai modelli di propagazione è arrivata da PAMELA nel lontano 2008. 


Qualche indizio già c’era, ma era impossibile trarre conclusioni data l’enorme confusione che si veniva a creare quando si esaminavano i risultati di tutti gli esperimenti precedenti.
Per questo motivo è stato necessario effettuare un’unica misura con un unico esperimento, apposta per togliere di mezzo tutte le incertezze dovute al confronto tra esperimenti diversi.

I risultati di PAMELA furono accolti con grande entusiasmo dalla comunità scientifica (al punto che alla conferenza dove furono presentati i grafici vennero fotografati e alcune persone utilizzarono le suddette fotografie per sovrapporre i dati ai risultati del loro modello di materia oscura/pulsar) e sollevarono un vespaio di articoli in cui il modello X veniva utilizzato per spiegare l’anomalo andamento della frazione di positroni.

Ciò nonostante finchè la novità arriva da un solo esperimento c’è sempre la possibilità che si tratti di un qualche tipo di errore. Certo, non parlo di errori tipo “mi è caduto il caffé sulla tastiera del pc” ma di dettagli veramente complicati che possono sfuggire anche alle più attente e meticolose analisi (ricordate la storia dei neutrini più veloci della luce?).
Difatti riuscire a riconoscere un positrone nei raggi cosmici non è impresa facile.

Un positrone è come un elettrone solo che invece di avere carica elettrica negativa, ha una carica elettrica positiva. Il problema però è che la stragrande maggioranza dei raggi cosmici con carica positiva è costituita da protoni, e alle alte energie per ogni positrone ci sono circa 10000 protoni, e più si sale in energia più questo numero aumenta. Se uno confondesse un protone per un positrone una volta su mille già sarebbe un disastro.
Pensateci un attimo, questo significherebbe che su 10000 protoni circa 10 verrebbero scambiati per dei positroni. Quindi ci troveremmo a contare in tutto 11 positroni: uno perché è veramente un positrone e gli altri dieci sono protoni che abbiamo sbagliato ad identificare. Come risultato stiamo sbagliando la nostra misura di un fattore 10!

Quindi al di là di come si fa a distinguere un positrone da un protone bisogna saperlo fare sbagliando meno di una volta su 10000, come minimo. È chiaro come il minimo errore in questa direzione può portare a misurare una frazione di positroni che cresce con l’energia. 

Fortunatamente non è questo il caso e, finalmente, dopo circa 5 anni abbiamo non una, ma due conferme indipendenti che “la vecchia signora” (è così che mi piace chiamare PAMELA, in intimità) non si è sognata nulla.

La prima è arrivata nel 2011, dall’esperimento FERMI. 


Questa in tutta onestà non se l’aspettava nessuno (almeno non io) dal momento che FERMI è un esperimento che di per sè non è in grado di distinguere se una particella ha carica negativa o positiva (non entro qui nei dettagli, la tecnica utilizzata è brillante e molto complicata. Per chi vuole qualche dettaglio tecnico in più consiglio di andare a leggere qui) non di meno è stato rassicurante sentire una seconda campana suonare la stessa musica.
Però per quanto rassicurante sia stato FERMI e PAMELA sono due esperimenti significativamente diversi, con obiettivi diversi, e la misura in questione è stata effettuata con due tecniche profondamente diverse. In una situazione simile il confronto tra le due parti è sempre mooolto delicato.

Poi nella primavera del 2011 è stato lanciato AMS. Come Ting ha ampiamente ricordato almeno 7 volte durante la sua conferenza questo è un progetto enorme che va avanti da 18 anni. Le sue dimensioni sono circa 20 volte quelle di PAMELA, questo gli consente di raccogliere molti più raggi cosmici. Ricordo di aver fatto due calcoli e di aver realizzato che in 6 mesi AMS avrebbe raccolto tanti dati quanti PAMELA ne ha raccolti in 5 anni.
I primi annunci dalla collaborazione di AMS promettevano di mostrare i primi dati a un anno dal lancio. 
Purtroppo, e anche questo nella conferenza è stato sottolineato n volte, un esperimento del genere nello spazio è infinitamente complicato da gestire. In particolare gli elevati sbalzi di temperatura a cui il rivelatore è soggetto da un lato causano degli spostamenti delle componenti dall’altro alterano il comportamento dell’elettronica di bordo e alterano la pressione del gas contenuto in uno dei sottorivelatori. Correggere questi effetti è dura, specialmente se va fatto di continuo.
Questo è il motivo per cui i primi risultati di AMS sono arrivati con un anno di ritardo rispetto alla tabella di marcia.
Ma l’importante è che siano arrivati.


Ora la sfida diventa sempre più ardua perché alcuni di questi effetti diventano sempre più ostici da gestire quando si sale con l’energia e la stragrande maggioranza di noi comuni mortali è molto curiosa di sapere cosa succede più su. AMS tecnicamente dovrebbe essere in grado di raggiungere energie molto più elevate rispetto a quanto è stato mostrato finora ma la collaborazione ha scelto di essere estremamente prudente e di aspettare di avere più dati per garantire dei risultati affidabili e credibili.
È pienamente comprensibile e condivisibile.

Però non mi sento particolarmente elettrizzato. Sono solo soddisfatto perché la credibilità della “vecchia signora” ne esce illesa e rafforzata. D’altro canto ho l’impressione che i risultati mostrati da AMS non aggiungano nulla di nuovo allo scenario degli ultimi 5 anni e che la loro presentazione sia stata un po’ troppo “pubblicitaria”. In tutta onestà non me ne frega niente di quanto pesa lo space shuttle, o di quanto è lunga/larga la stazione spaziale internazionale. 


Foto del lancio e del docking ce ne hanno mostrate a tonnellate negli ultimi due anni. 
Non so, mi sarei aspettato un po’ più di “ciccia” e meno “fumo”.

giovedì 4 aprile 2013

La voce del gigante (1)

(Mentre scrivevo questo post mi sono reso conto che sarebbe stato piuttosto lungo, per questo motivo e' stato spezzato in piu' parti)

Mi sono sempre chiesto se fosse il caso di affrontare su questo blog argomenti di natura scientifica o meno. Non sono probabilmente la persona più adatta per fare divulgazione (si sa, ci vuole pazienza per queste cose), tra i miei amici/colleghi ci sono persone che la fanno molto meglio di me (e con una certa costanza che a me manca, ma che sono pigro l’ho detto fin dall’inizio). D’altro canto parlarne da un punto di vista tecnico mi lascia altrettanto dubbioso, perché non ho la voglia di entrare in dettagli e tecnicismi che solo 3 o 4 persone riuscirebbero a seguire, andrebbe contro lo scopo di tenere un blog come questo.
Quindi o non ne parlo, o devo sforzarmi di scrivere un post divulgativo. Tra le due alternative forse è meglio la seconda.

Quindi inauguro oggi il lato divulgativo del mio blog. E lo faccio all’indomani di un annuncio che, nel campo della fisica in cui “lavoro”, era atteso da circa un anno.
Proprio ieri, infatti, l’esperimento AMS (Alpha Magnetic Spectrometer) ha rilasciato pubblicamente i primi risultati.




Ora, siccome ho promesso che questo sarebbe stato un post divulgativo, mi tocca fare due o trecento passi indietro e già la cosa mi scoccia.

Intanto vediamo di capire cosa c’è di tanto interessante nei raggi cosmici. 
I raggi cosmici non piovono tutti con la stessa energia, piuttosto la probabilità di trovare una particella con una certa energia E segue una legge ben precisa detta “legge di potenza” (per chi è interessato, la formula qui sotto). 


Questo fa sì che tanto più si vogliono osservare raggi cosmici ad energie elevate, tanto più si deve aspettare.
La domanda più interessante che potremmo porci è “da dove arrivano queste particelle, e cosa gli ha dato così tanta energia?” (vale la pena notare che i raggi cosmici più energetici mai osservati finora hanno un’energia circa 100 milioni di volte più elevata delle particelle accelerate a LHC). 
Il fatto però che la distribuzione in energia dei raggi cosmici ha questa forma costituisce un indizio. Infatti ormai si tende a pensare che, almeno fino ad una certa energia, i raggi cosmici vengano accelerati dall’onda d’urto che si crea ogni volta che una supernova esplode e che scaglia via tutto ciò che le si trova intorno. Già negli anni ’30 Enrico Fermi dimostrò che in un caso simile la distribuzione in energia che si verrebbe a creare è proprio una legge di potenza.

Ora il discorso si complica, ma per arrivare a parlare dei risultati di ieri serve ancora qualche altro passetto. Se vi siete stufati di questi discorsi... beh pure io. Però andrò avanti lo stesso in uno stoico esercizio di pazienza. 

Una volta che i raggi cosmici vengono investiti ed accelerati dall’esplosione di una supernova essi compiono un lungo viaggio per la galassia, sballottati qua e là dal campo magnetico che la permea, fino a quando, poveracci, non giungono sulla Terra (o chissà dove altro, mica vengono solo qua in villeggiatura).
Durante le loro peregrinazioni il continuo venir deflessi dal campo magnetico galattico distorce la distribuzione in energia dei raggi cosmici. Questo vuol dire che se uno misura questa distribuzione (o spettro, come la chiameremo d’ora in poi) a terra la troverà significativamente diversa da quella che era in origine (in uscita dalla supernova, per intenderci).
Fortunatamente abbiamo tutti gli strumenti per intuire come la propagazione nella galassia alteri lo spettro dei raggi cosmici. Semplificando all’inverosimile tutto quello che succede è che la pendenza dello spettro (riassunta in un parametro chiamato “indice spettrale”, il gamma nella formula precedente) aumenta. Di quanto aumenta dipende sostanzialmente da come è fatto il campo magnetico galattico.


Ora, la stragrande maggioranza delle particelle che giungono alla Terra, circa l’86%, sono protoni (o nuclei di idrogeno, che dir si voglia), un buon 10% nuclei di elio, circa un 1% di  nuclei più pesanti (dal litio in su), un altro 1% di elettroni, e qualche sputazzo di antimateria. Ricordiamocelo che fra poco ci servirà.

Lo spazio tra una stella e l’altra nella nostra galassia non è completamente vuoto (il vuoto non è mai vuoto, in realtà, ma questo è un altro discorso) ma è costituito da un gas di igrogeno a bassissima densità, con qualche traccia di elio. Quando dico bassissima densità mi riferisco a qualcosa come una particella al centimetro cubo. Praticamente vuoto. Ma non completamente vuoto.
Una volta ogni morte di papa (forse anche più raramente, ora che ci penso) un raggio cosmico va a sbattere contro una di queste particelle che costituiscono il cosiddetto “mezzo interstellare” (daje coi paroloni, ‘sto post sta diventando meglio di una puntata di Mazinga). Quando questo succede, a seconda del tipo di particella in considerazione, possono succedere diverse cose. Se il raggio cosmico “proiettile” è un nucleo di un elemento pesante ci sono buone probabilità che si frammenti in nuclei più piccoli, un po’ come tirare una palla da golf contro un grappolo d’uva.
Questo ha una conseguenza interessante. Attorno alle stelle (e quindi anche attorno alle supernovae, prima che esplodano) elementi come litio, berillio e boro sono piuttosto rari perchè non fanno parte della catena di reazioni nucleari che sostiene le stelle più pesanti (C-N-O). Però ogni tanto, durante il loro viaggio, i nuclei di carbonio nei raggi cosmici collidono contro un protone del mezzo interstellare e si frantumano lasciando ta i vari “cocci” un nucleo di litio, o berillio, o boro che prosegue poi il viaggio verso la Terra.
Questo spiega perché litio, berillio e boro (per dare un esempio) siano molto più abbondanti nei raggi cosmici di quanto non lo siano nel nostro sistema solare. Inoltre, dal momento che abbiamo un’idea più o meno precisa di quanto ci voglia per spappolare un carbonio in boro, misurando quanto boro c’è nei raggi cosmici, rispetto al carbonio, possiamo avere un’idea di quanta sia la densità del mezzo interstellare, o meglio, di quanta materia ci sia nella nostra galassia tra una stella e l’altra. 

L’antimateria, invece, intorno alle supernovae non ci dovrebbe proprio stare. D’altro canto il nostro sistema solare è un esempio tipico di un ambiente intorno ad una stella, e di antimateria non se ne sente neanche il profumo. Ma allora da dove arriva l’antimateria che osserviamo nei raggi cosmici? Arriva esattamente da dove arrivano i nuclei di boro, dalle collisioni dei raggi cosmici con il mezzo interstellare. Coppie particella/antiparticella possono crearsi dallo scontro tra particelle se l’energia è sufficientemente alta. In particolare se facciamo scontrare due protoni (ossia le componenti più abbondanti sia nei raggi cosmici che nel mezzo interstellare) è molto probabile che nell’urto si creino delle particelle chiamate pioni. I pioni carichi (esistono anche in forma neutra, ma non ci interessano ora) decadono in muoni i quali, a seconda del segno della loro carica elettrica, decadono in elettroni o positroni (le antiparticelle degli elettroni).

Quindi in realtà una piccola componente di tutto ciò che piove sulla terra è fatta di antimateria. È poca, ma misurabile. Il fatto che sia poca è la chiave. 
Immaginiamo infatti che qualcuno ci dica che là fuori c’è tanta materia, non sappiamo di cosa sia fatta, ma sappiamo solo che 
  1. è tanta
  2. non interagisce quasi per niente col resto della materia
  3. non emette luce (conseguenza del punto 2)
  4. forse, ma solo forse, ogni due morti di papa una coppia di particelle di materua oscura si annichila in una coppia particella/antiparticella

Se volessimo quindi capire un poco meglio cosa costituisce questa materia “oscura” (hmm... no niente virgolette, si chiama veramente così) ci conviene guardare in cielo nella speranza di osservare i frutti del suo decadimento. Dovremmo quindi osservare un eccesso di qualche tipo di particelle rispetto a quelle che ci aspettiamo arrivare dalle supernovae. 
Quindi se la nostra particella di materia oscura decade, per dirne una, in una coppia elettrone/positrone abbiamo molta più possibilità di accorgercene se andiamo a guardare tra i positroni piuttosto che tra gli elettroni, proprio perché i primi sono molti meno.

Proprio per questo motivo negli ultimi venti anni ha acquisito un grande interesse per la comunità scientifica la cosiddetta “frazione di positroni”. Questa quantità altri non è che il rapporto tra il flusso di positroni che arriva a terra e la somma dei flussi di positroni ed elettroni (di nuovo, per gli interessati qui sotto c'è la formula). 


Se ipotizziamo che la materia oscura non esista (o non decada in coppie elettrone/positrone) questo rapporto dovrebbe, secondo le nostre non troppo rozze conoscenze, diminuire sempre più con l’aumentare dell’energia (il motivo è interessante, ma forse troppo tecnico per essere spiegato qui, forse vale la pena parlarne in un altro post), mentre in presenza di materia oscura ci si aspetta che in qualche modo questo rapporto aumenti (arrivando eventualmente fino ad un massimo di 0.5, visto che dalla materia scura arrivano tanti positroni quanti elettroni) per poi crollare immediatamente una volta superata l’energia associata alla massa della particella di materia oscura (la ragione è semplice, siccome l’energia si deve conservare la coppia elettrone/positrone non può avere più energia di quanta ne avesse la coppia di particelle di materia oscura).

Purtroppo ci si è presto accorti che la materia oscura non è l’unico imputato in grado di indurre un simile andamento nella frazione di positroni. È possibile che una certa categoria di stelle, chiamate pulsar, siano in grado di produrre e accelerare coppie di elettroni/positroni. Questo perché, da quel poco che ne sappiamo, è probabile che le pulsar siano delle stelle di neutroni in rotazione mooolto veloce e dotate di un campo magnetico estremamente elevato. In queste condizioni l’energia immagazzinata nel campo magnetico della pulsar è in grado, ogni tanto, di creare una coppia elettrone/positrone e di accelerarla ad energie piuttosto elevate. Questa ipotesi ha qualche difficoltà intrinseca (al momento è difficile immaginare un meccanismo per cui gli elettroni, o i positroni, riescano a sfuggire dalla pulsar) ma porta alle stesse conseguenze di una frazione di positroni crescente con l’energia. Una differenza rispetto al caso della materia oscura è che comunque la frazione deve calare dopo esser cresciuta, ma il crollo in questo caso è previsto essere molto più “dolce”.

Diventa quindi cruciale riuscire ad effettuare questa misura fino alla più alta energia possibile. Difficile a dirsi e ancora più difficile a farsi.

(Continua qui...)