lunedì 22 ottobre 2012

Weekend improduttivi


Sicuramente a tutti voi sarà capitato almeno una volta di arrivare al lunedì mattina, svegliarsi al suono della radiosveglia (che, se come me avete serie difficoltà a trovare sufficiente motivazione ad alzarvi dal letto, starà passando uno qualsiasi degli inascoltabili successi contemporanei, ultimo singolo dei Muse in primis) trascinarsi in bagno e, una volta conquistata la doccia, cercare di dare un significato a quella impenetrabile sensazione di non aver concluso nulla nel precedente fine settimana.
Ecco probabilmente non c’è sensazione peggiore, alla mattina. Ti costringe a rimuginare sui due giorni appena passati esaminando ogni singolo secondo cercando di stabilire se esso sia stato sprecato oppure no. E alla fine chi è che stabilisce l’utilità del vostro tempo? E su che basi?
Ci sono parecchie risposte prevedibili a tale domanda. Potremmo essere noi stessi ad assegnare un valore ad ogni istante di tempo che abbiamo trascorso, oppure potremmo arguire che nessuno ha idea di quanto un istante sia stato fruttifero o meno dato che nessuno può esaminare con certezza tutte le infinite alternative del caso.

A me succede spesso di avere di questi dubbi, probabilmente scatenati al pensiero che da qui al prossimo weekend ci passano cinque giorni di intenso lavoro (chi mi conosce un minimo probabilmente si starà sganasciando dalle risate, tipo Marco, ma questa è un’altra storia...) al termine dei quali sto daccapo a dodici.
In ogni caso ho imparato a non farne troppo un dramma e a sfruttare queste situazioni per dedicarmi a quelle attività che richiedono troppa concentrazione o tempo consecutivo per essere svolte la sera dopo cena (no, in genere non si tratta delle pulizie di casa, anche se sarebbe meglio).

Capita così che questi weekend ‘vuoti’ siano l’unica mia possibilità per dedicarmi in maniera approfondita alla musica, e non nel senso di far pratica o esercizio perché per quello basta veramente la volontà di prendere lo strumento un’oretta ogni sera e ‘giocarci’ per non ritrovarsi poi settimane dopo completamente arrugginiti.
No, sto parlando della composizione. 

In effetti detta così può sembrare un po’ pomposo e presuntuoso. “Composizione”. Mozart componeva, Beethoven sicuramente componeva pure lui, Berio... che ne parliamo a fare? Frank Zappa a modo suo componeva, eccome. Eccezion fatta per tutta la gente loro pari che non ho voglia di includere, ho qualche dubbio su tutti gli altri, me per primo. Per questo preferisco l’espressione “scrivere”, anche se non scrivo mai su carta, o ancora meglio “buttare giù”.

Detto ciò ci sono tanti modi di scrivere (o buttare giù) musica e ognuno ha il suo, la cui validità dipende da persona a persona. Quello che seguo io non è per nulla inusuale, anzi è forse l’approccio più diffuso ma non per questo esente da limitazioni o difetti. Per quanto possa sembrare banale il mio approccio si può semplicemente riassumere in una parola. Suonare. 
Sì, perché un brano, o un’idea, non cadono per magia dal cielo. Ci dev’essere un’origine, una sorgente, insomma il seme dell’idea da qualche parte deve arrivare. E non arriva da solo, deve essere ricercato o perlomeno stimolato a comparire. Uno dei modi migliori per far ciò è prendere semplicemente lo strumento e suonare, cercando di evitare di impuntarsi sull’obiettivo e di ignorare i suggerimenti del cervello. La tentazione di strutturare la composizione fin dall’inizio, di architettare una voluta complessità o di lavorare su più livelli può essere forte ma deve essere una fase successiva, prima deve venire l’idea.
Ormai c’ho fatto caso un po’ troppe volte, l’ispirazione non sta al nostro comando. Non decide di farsi vedere solo perché glielo abbiamo chiesto noi anzi, per ripicca, sceglie di farci visita proprio quando non abbiamo molto tempo per darle ascolto (se per voi non è così sappiate che avete la mia più profonda invidia, evidentemente devo aver fatto qualcosa per indispettire le muse). E allora capita spesso di assistere ai più disperati tentativi di fissare un’idea prima che cada nel dimenticatoio (cosa che inevitabilmente succede dopo pochi giorni). Per esempio ricordo ancora il mio insegnante di teoria musicale che a lezione ci raccontava di come lui andasse sempre in giro con uno di quei registratorini portatili per musicassette (per intenderci quelli che si vedono nelle serie TV dove il protagonista prende i suoi appunti o le sue note mentali registrandole su una cassetta, quasi sempre con un incipit del tipo “Diario personale del dott. Zapotec, giorno 27 Ottobre 2010, ancora l’ennesimo fallimento, etc...”) e di come la usasse per annotare le melodie che gli balenavano in mente nei momenti più assurdi, e di come alle volte la cosa risultasse comica. Immaginate voi di vedere per strada un signore distinto che all’improvviso tira fuori un apparecchietto, se lo porta alla bocca, preme un bottone e inizia a canticchiare, dieci secondi dopo spinge un altro bottone, si rimette in tasca l’apparecchio e se ne va per la sua strada. 
Ma sto divagando.
Il punto chiave di questo discorso è che le idee arrivano quasi sempre nel momento meno adatto ed uno deve essere bravo nel prenderne nota prima che vengano dimenticate. Io ormai ho rinunciato da tempo a tutte quelle idee che mi vengono in mente per strada, non sono tipo da registratore portatile e, sinceramente, non mi va di sembrare uno psicopatico più di quanto già non sembri per strada. Faccio tuttavia uno sforzo mostruoso contro la mia stranota pigrizia per annotare tutte quelle idee che mi vengono mentre strimpello a casa la sera, prima o dopo cena. 
Non che accada spesso eh... non è che ogni volta che uno prende in mano lo strumento esce fuori l’idea del secolo, anzi... Il più delle volte mi trovo a ripetere gli stessi fraseggi, gli stessi accordi per decine di minuti (con buona pace dei miei coinquilini che ormai spero abbiano capito che semplicemente c’è qualcosa nella mia capoccia che non va, ma non è niente di grave) per cercare “assaporarli” in fondo e coglierne tutte le sfumature possibili. La maggior parte delle volte è come quando uno si fissa a ripetere centinaia di volte la stessa parola fino al punto in cui essa perde di significato e inizia ad avere un suono buffo, e a quel punto non c’è molto da fare, se non ne sei convinto probabilmente non è una buona idea, e se non riesci proprio a suonare nulla di diverso tanto vale posare lo strumento e lasciar perdere, domani andrà meglio.

L’importante comunque è aprire tutto. Non nel senso Boris-iano del termine. Nel senso di metter da parte la razionalità e lasciare che le idee escano fuori da sole, anche quelle che non sono un granchè (la maggior parte ricade in questa categoria, ma non c’è modo di saperlo a priori, no?). Anche questo non è facile e richiede allenamento. Personalmente trovo che il barbatrucco migliore sia quello di pensare a tutt’altro, impedire al cervello di concentrarsi su quello che le mani stanno suonando. Basta anche solo pensare a cosa preparare per cena, ad un problema irrisolto a lavoro, a quello che ha fatto la Roma domenica scorsa, quello che ve pare. Ogni tanto però bisogna buttare un’orecchio a quello che sta succedendo in basso, per capire se abbiamo trovato qualcosa di meritevole d’attenzione.
Quando questo succede il lavoro vero e proprio è appena cominciato. Intanto bisogna trovare il modo di non perdere l’idea e di fissarla immediatamente. In genere uso la webcam del portatile in modo da poter rivedere anche gli accordi e i rivolti ma non è obbligatorio.

Bisogna poi passare alla fase successiva, un conto è un’idea abbozzata e un conto è un brano fatto e finito. Tra i due ci passa un abisso in genere. E qui si arriva al punto in cui c’è bisogno di tempo e concentrazione, bisogna capire quali sono le condizioni migliori per tirare fuori tutto il potenziale dell’idea e farla fiorire. 
Dettagli come il tempo (sta bene suonata a 120 bpm? O a 152? È forse meglio swingarla o lasciarla dritta?) la tonalità e l’arrangiamento vanno decisi subito, perché bisogna sapere dove si sta andando a parare altrimenti si rischia di procedere tentoni e al buio e si finisce per non combinare una mazza.

Non è detto che la strada sia in discesa a questo punto, il mio hard disk è pieno di brani che sono morti esattamente a questo punto. Può darsi che lo spunto iniziale non sia così eccezionale come pensavamo all’inizio o semplicemente bisogna cambiare approccio a livello d’arrangiamento, e comunque bisogna sempre essere nel mood giusto.
Ma quando tutto va per il verso giusto te ne accorgi subito.
Quello è il momento di mettersi davanti ai microfoni e iniziare a buttare giù le prime tracce, lavorare alla struttura, permettere al cervello di intromettersi nel processo e lasciargli fare da “architetto” escogitando stacchi, cambi di tempo, armonizzazioni e così via. 
Una volta ottenuta una bozza completa del brano (nel mio caso spesso e volentieri si tratta di un’unica traccia di chitarra che va dall’inizio alla fine del brano) si inizia a fare sul serio, è il momento di scrivere tutte le altre parti (voi o chi per voi, se suonate in una band e scrivete tutti insieme) usando la bozza come base per ricordarvi in ogni momento qual è l’obiettivo finale. Infine è buona norma rifare per ultima la traccia base su cui avete poggiato tutte le altre (spesso e volentieri perché contiene imperfezioni o può essere migliorata per interagire con tutte le altre parti che avete inserito nel frattempo) e avete sostanzialmente finito.

Rimangono da sistemare dettagli tecnici come mixaggio e post-produzione (se risucite a farlo da soli, sossodisfazioni!) e potete finalmente chiamarla una giornata, per usare un inglesismo.

Siamo quasi alla fine ma non bisogna avere la fretta di pensare che l’opera sia conclusa. In genere si arriva a questa fase dopo ore e ore di registrazioni e riascolti in cuffia e le nostre orecchie, come è normale che sia, si stancano dopo uno stress prolungato. La concentrazione piano piano se ne va, anzi in genere è la prima cosa che vi abbandonerà, specie dopo la quarta volta che cercate di registrare un passaggio particolarmente impegnativo. 
È quindi buona norma lasciare passare qualche ora o, meglio ancora, dormirci su e riprendere l’ascolto ad orecchie fresche, riesaminare il vostro lavoro con una mentalità più distaccata possibile, come fosse opera di un altro e, se ci sono dettagli che non vi soddisfano dovete rimettervi le cuffie e correggerli, e ripetere il processo finchè non siete soddisfatti. Chiedete pure consiglio a colleghi ed amici, se vi fidate del loro giudizio in materia (non vado certo dar macellaio sotto casa o dal fruttivendolo all’angolo a chiedergli se trova pacchiana un’armonizzazione a tre voci, a meno che non mi abbia dimostrato un briciolo di competenza in materia) e non scartateli a priori, può benissimo capitare che una trovata che a voi è sembrata geniale in realtà si riveli una fantozziana cagata pazzesca, fa parte del gioco...

E alla fine quando vi toglierete le cuffie per l’ultima volta avrete pieno diritto di sentirvi soddisfatti, orgogliosi e stanchi. Perché, ve lo assicuro, vi sentirete stanchi e deconcentrati ma avrete l’impressione di aver costruito qualcosa di magnifico (se così non è iniziate a preoccuparvi, siete la prima persona a doverla pensare così, non potete pretendere che lo facciano gli altri per voi). Vi troverete ad aver impegnato due giornate intere per un risultato che in media non supera i 5 minuti, ma ne sarà valsa la pena.

Quando questo succede, come negli ultimi due giorni, la mattina dopo il weekend sembra sempre meno ‘vuoto’.


Bakko





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